Articoli di Giovanni Papini

1955


in "Schegge":
La prigione verde
Pubblicato in: Il nuovo Corriere della Sera, anno LXXX, fasc. 210, p. 3
Data: 4 settembre 1955


pag. 3




   Conosco un'isola che non è circondata dalle acque. E' un'isola grande e bella, ricoperta di alberi e d'erbe, che un muro protegge e divide dall'uraganoso mare del circostante mondo. Pochissimo popolata è quest'isola, ma vi sono comunque guardaboschi e guardacaccia, cocchieri e stallieri, giardinieri e camerieri, donne di cucina e donne di fatica. Ma i veri abitatori e dominatori dell'isola sono due soli: un antico Gigante e una vecchia Principessa. Il colosso è fatto d'una terracotta divenuta dura come la pietra e sembra un immenso dio con la barba ondosa di un filosofo, disteso con tutto il suo corpo lungo e possente sopra un triclinio di rocce. Ma piuttosto che pronto al convito pare che si stia specchiando in un vasto bacino ovale d'acque verdi, quasi un Narciso enorme che si contempla ormai da quattrocento anni.
   La Principessa è fatta di carne ma i suoi capelli hanno il colore dell'aglio secco, il suo viso è di un bianco morticcio simile a quello dell'alabastro invecchiato, i suoi occhi, già azzurri, son divenuti grigi e lacrimosi, il suo personale che fu maestoso come quello di un'imperatrice bizantina è ridotto ora a una specie di manichino magro e tremulo che ha appena la forza di reggere il peso degli abiti di seta tutti bianchi o tutti neri. La Principessa è molto più giovane del Gigante ma purtuttavia è decrepita ed è rimasta l'unica vivente di una illustre tribù orientale di sette famiglie.
   E' ormai sola ma vuole esser sola. E' la regina, la tiranna, la dittatrice della sua isola boschiva e non ha rapporti con i salariati che da lei dipendono. Essa esercita il suo potere per mezzo di un triumvirato di favoriti: un segretario procuratore, una dama di compagnia e un cappellano. Questi ha, fra l'altro, l'obbligo di celebrare tutte le mattine una Messa nel tempio rotondo dove, disposte intorno a tre colonnati concentrici, sono raccolte le tombe di tutti i morti della Principessa.
   Benchè sia ricchissima e conosciuta dai più alti personaggi del mondo, non lascia mai la sua isola, neppure per andare a una famosa città distante poche miglia. Per passeggiare in carrozza con ì suoi bellissimi cavalli le bastano i settanta chilometri di strada che corrono in mezzo alle sue selve e alle sue praterie.
   Molta gente sarebbe curiosa e smaniosa di farle visita ma essa non si rassegna a ricevere che qualche superstite dell'epoca dinastica che fu l'epoca sua, della sua gioventù magnificente e asiatica. Ad esempio un'imperatrice vedova di un imperatore spodestato, una regina in esilio, un principe ereditario che non sarà mai re, un granduca parente dello zar assassinato, l'ultimo discendente di un monarca abdicatario. Tutti sono legati più o meno, per parentela o amicizia, con la Principessa la quale però li trattiene poco tempo e non li ospita mai perchè preferisce altra compagnia. Nelle sue quotidiane passeggiate attraverso i boschi del suo dominio incontra qua e là grandi statue di marmo, i soli esseri che la Principessa rispetta. Essa ebbe padre e madre, fratelli e sorelle, due mariti, cinque figli e una moltitudine di zie e di zii, di cugini e di cugine e di nessuno si è mai dimenticata. Ogni volta che moriva uno di quei suoi amati congiunti, ordinava a uno scultore celebre la statua dello scomparso e le faceva inalzare tra il verde del suo regno, ora alla svolta di un viale, ora in mezzo a una aiola fiorita, ora sul margine di una vasca, ora in una radura erbosa. Erano la sua famiglia, la sua tribù, i suoi pari, gli unici con i quali si fermava volentieri a conversare, in silenzio, rammemorando i regali e imperiali tempi remoti.
   In tal maniera viveva la Principessa nella sua sterminata prigione verde, insieme al suo Gigante antico e ai suoi morti. Intorno alle muraglie che recingevano l'isola correvano, gridavano, ridevano, amavano innumerevoli uomini e donne dell'età nostra, e là dentro taceva, ricordava e pregava una sopravvissuta di un defunto secolo. Là intorno lavoravano i contadini, strepitavano le macchine, tumultuava la vita e là dentro tutto era calma e silenzio, lusso antico, reliquie di cerimoniale, polverume di storia. Non esistevano macchine ma soltanto alberi, fiori, cavalli e statue. Un frammento di passato seguitava ad esistere — ma per quanto? — in mezzo al presente. Un Narciso titano e una Principessa nostalgica, segregati in quella sconfinata carcere arborea, erano l'ultima sfida di un mondo trapassato e sepolto che si ostinava a non morire.


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